SAHA

SAHA
Saha é la parola araba che rappresenta questa parte del viaggio. Saha é il suono che Leone emette la mattina quando si sveglia e la sera quando stiamo per addormentaci, nonché un numero considerevole di volte durante la giornata, inserita o meno nel contesto, il tutto per esercitarsi in un suono della lingua araba a noi sconosciuto. Saha é l’equivalente del nostro bella, lo usano sempre: sia quando ti portano un te al bar, sia quando finiscono di darti un informazione che il più delle volte, chissà come mai, é “tout droit!”, sia quando si presentano e ti stringono la mano. Insomma é la parola più usata nelle conversazioni fugaci che intraprendiamo. Abbandonati i dubbi di “mumkin” ora il nostro motto é “saha”, bella! Siamo carichi, Siamo sul pezzo!
Il viaggio dalla sourse bleu -a.k.a. ti faccio gli animaletti con le foglie di palma e poi ti do la sola- a Merzouga non é lunghissimo, ma riusciamo lo stesso a ritardare dato che ci fermiamo più di due ore in un villaggio all’apparenza disabitato, ma che si popola prima di bambini poi di donne e infine di adulti maschi nel momento in cui portiamo i nostri culi bianchi all’interno delle mura grezze e tondeggianti che circondano il villaggio. Ci invitano a visitare una madrassa (scuola) femminile in cui insegnano a leggere il corano e a confezionare con telai e macchine da cucire bellissime tovaglie, grembiuli e manufatti locali. Conclusi alcuni affari, che andranno a sovvenzionare il progetto, ci spostiamo nella sobria ma elegantissima dimora del presidente dell’associazione, non a caso un uomo, che in un buon francese ci spiega le loro attività mostrandoci attestati firmati da chi sa quali autorità locali. “Monsiuer Le President” ci guida poi nel suo giardino dove con orgoglio ci mostra le sue piante e il suo sistema di irrigazione elettrico, moooolto rudimentale, che prende acqua da una grossa cisterna aperta.
Ci incamminiamo a stento fra braccia dei bambini e delle ragazze verso Rodrigo dove però ci attende una brutta sorpresa: la trombetta prestataci dalla Carlotta, soggetto protagonista di molte riprese soggettive durante gli spostamenti, nonché nostro unico clacson, non c’é più. Fatto presente ciò, in tono amichevole, riceviamo la garanzia dal “Presidant” che al nostro ritorno da Merzouga la trombetta sarà saltata fuori, stranamente ci fidiamo, sarà stata la stretta di mano immortalata da una foto tra i due presidenti (l’altro é il berra ndr).
Arriviamo a Merzouga un’ora prima del tramonto e la piccola cittadina con le strade sterrate ci appare subito una tipica e iconografica città di frontiera: oltre Merzouga il nulla, la strada diventa una pista che si perde nel forte vento che ci preannuncia quanto i nostri occhi cittadini, abituati allo smog, patiranno le pene dell’inferno, qui nel Sahara. E’ li, davanti a noi, rosso come il fuoco. Uno si immagina il deserto di sabbia come un grosso spiaggione senza mare, color giallino/dorato. Invece no, cazzo, é rosso rosso, quasi fluo, e Merzouga sembra una villetta californiana circondata dalle fiamme.
In giro per Merzouga poco e niente, qualche negozietto, i soliti acchiappa-turisti che qui al posto del te berbér offrono la possibilità di fare escursioni con potenti “Hummer” e dei curiosi benzinai che al posto delle pompe hanno le taniche e che vendono il gasolio a un prezzo più alto anche dell’Italia quando in tutto il Marocco é poco più della metà.
Nei paraggi, in mezzo a baracche fatte di fango e paglia, si stagliano una mezza dozzina di riad, alberghi di extralusso costruiti con i materiali locali, ma dalle fattezze principesche.
E’ proprio in uno di questi che ci fermiamo, Anita é già stata qui un anno e mezzo fa e conosce bene il proprietario Nasser, un benestante berbero che vive tra Barcellona e le dune.
Il Nasser Palace ci lascia tutti a bocca aperta, lo scenario é da mille e una notte: attorno a una piscina, il cui fondo é fatto tutto di piastrelline grosse come francobolli, si affacciano le curatissime stanze e il raffinato ristorante in stile arabeggiante. Fuori dall’albergo, davanti a noi, il nulla; una piccola fila di palme e subito dopo le dune verso est che al tramonto sembrano ancora più infuocate.
La nostra sistemazione, dato che le camere erano tutte occupate, é in una delle tende berbere montate sul retro dell’hotel. Tende fatte di tappeti e coperte in puro stile “berbèr”! Trascorriamo la serata attorno a un fuoco con una comitiva di turisti arabi danzando in maniera forsennata al ritmo della musica “gnawa” suonata da un gruppo di musicisti sudanesi e dopo qualche ora sveniamo soddisfatti nelle nostre tende. Il risveglio é “de grand class”: bagno in piscina, colazione servita su tavolini a bordo vasca, tintarella e relax totale.
Verso le 17 si presenta Hassan, un beduino del deserto tutto di bianco vestito che ci guiderà tra le dune nella nostra escursione nel Sahara. Qui aprirei una parentesi su Hassan, la prova vivente di quanto i berberi beduini siano molto più riservati e “fottesega” di tutti gli altri. Hassan non parlava tanto e non aveva voglia di sentire parlare troppo, come a voler rispettare il silenzio del deserto, ma non era affatto scorbutico, anzi: scherzava in modo molto british, sorrideva e ci spiegava in maniera sillabica ma efficace tutto ciò che ci circondava.
Chiusa parentesi, saliamo sui dromedari e via a serpeggiare tra le dune sballonzolando per il ritmo dei nostri animali/mezzo di trasporto, idea che un po’ fa prendere male me e il berra, animalisti convinti, e perplessi dall’idea di sfruttare un animale in quel modo; perplessi anche dal fatto che la nostra guida é invece a piedi e con pure un tallone infortunato.
Dopo aver visto il tramonto dalla cima di una duna e aver provato l’ebbrezza (io&leo) di surfare con il nostro snow/sandboard lungo i pendii di sabbia, ci dirigiamo al nostro accampamento che si trova proprio ai piedi della duna più alta del Sahara nord-occidentale.
Ora, non so se quella duna a solo un ora di cammino dalla civiltà é veramente la più alta o é solo un modo per attirare maggiormente i turisti, anche perché chi é che potrebbe controllare, sta di fatto che si stagliava enorme davanti a noi come un grosso triangolo scaleno, con pendii ripidissimi e salite più accessibili proprio sulla cresta della duna.
Prima di cenare ci abbandoniamo scalzi in una passeggiata al buio in mezzo alle dune con diverse reazioni in ognuno di noi: chi pensava agli insetti nella sabbia, chi a rispolverare nozioni confuse di orienteering e di esplorazionismo e chi ad urlare a squarciagola turpiloqui in arabo. Durante la cena a base di tajine, la sorpresa: il ticchettio delle gocce sulla tenda non inganna il mio fine orecchio da ex-scout: cazzo, sta piovendo, siamo nel deserto del Sahara, che già a pronunciarlo esprime siccità, e sta piovendo. Saha.
Non dura molto, e “tornati fuori a riveder le stelle”, che qui sono davvero tante, ci addormentiamo all’addiaccio circondati solo da sabbia e gli scarafaggioni del deserto.
La visione dell’alba in cima alla duna più alta é un po’ un pacco, almeno per me che credevo di vedere chissà quali colori; all’orizzonte c’è foschia e quando il sole si staglia bene é già abbastanza alto e soprattutto é difficile guardarlo bene perché il vento mischiato alla sabbia é letale ed é difficile tenere gli occhi aperti nonostante abbia ben imparato a fare il turbante/accrocchio da tuareg.
Torniamo di nuovo in sella ai ruminanti nonché forti defecatori (il deserto del Sahara é veramente pieno di merda di dromedario che qui chiamano amabilmente “chocolate”) e torniamo sulla terraferma. Lungo il tragitto incontriamo un altra carovana alla quale ci accodiamo il che permette ad Hassan di defilarsi e sfuggire alle insistenti domande di Anita.
Dopo un ennesimo bagno in piscina ripartiamo verso la zona delle gole, in direzione Ouarzazate fermandoci però prima al villaggio di “Monsieur Le Presidant” dove come previsto ci fanno riavere la nostra trombetta.
Saha!

This entry was posted in Generale. Bookmark the permalink.